Da dove cominciare con Ingmar Bergman

Il Settimo Sigillo (1957)

Perché questo potrebbe non sembrare così facile

Nel suo 59 anni come regista (1944-2003), Ingmar Bergman scritto e/o diretto più di 60 film. È una figura scoraggiante per i nuovi arrivati, ma non male per un regista che considerava il cinema solo la sua “padrona”. Tuttavia, la sofferente “moglie” di Bergman, il teatro, non fu affatto trascurata: in qualche modo, Bergman trovò anche il tempo di dirigere più di 170 opere teatrali, sia nella sua nativa Svezia che all’estero. Aggiungete il fatto che molti dei suoi film presentano piccoli calchi che parlano a lungo in luoghi ristretti, e non sorprende che il suo lavoro cinematografico sia spesso criticato per essere “teatrale”.

Ingmar Bergman sul posto per Fragoline di bosco(1957)

Certo, Bergman spesso contrapponeva questa ‘teatralità’ con un modernismo giocoso che godeva del mezzo stesso del cinema, ma anche queste innovazioni sperimentali potrebbero ora essere viste come passé. La visione di Bergman come “superata” è solo aggravata dalla sua esplorazione di un certo tipo di esistenzialismo che la filosofia (e il cinema) hanno per lo più lasciato alle spalle. Inoltre, con il passare degli anni ’60, il suo lavoro divenne sempre più pessimista e obliquo, riflettendo sia un mondo che ha permesso orrori come la guerra del Vietnam, sia la moda di allora per i “testi aperti” senza autore.

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Ma il lavoro di Bergman non è stato, e non potrebbe mai essere, senza autore: forse più di ogni altro regista, Bergman ha usato il cinema come esplorazione (o esorcismo) di demoni personali. I suoi temi ricorrenti di genitori duri, infedeltà, morte, umiliazione e fede erano tutte preoccupazioni apparentemente sempre presenti nella sua vita. È forse questa connessione profondamente personale che ha reso Bergman un tale esperto nell’esplorare la psiche sullo schermo-questo, e un rifiuto di allontanarsi da verità scomode sulla natura umana. Se il lavoro di Bergman è difficile da guardare, è perché ci costringe a confrontarci con aspetti di noi stessi che preferiremmo evitare.

Il miglior punto di partenza – Wild Strawberries

Date le dimensioni, le dimensioni e la qualità della produzione di Bergman, è impossibile etichettare qualsiasi opera come il punto di ingresso definitivo, ma Wild Strawberries (1957) offre certamente un’introduzione accessibile a molti dei suoi motivi chiave e dispositivi narrativi. Qui, come altrove, Bergman utilizza un viaggio fisico-quello di Isak Borg, un anziano professore emerito che attraversa la Svezia per ricevere una laurea honoris causa-per rappresentare un viaggio interiore dell’anima, in cui il confronto di sé porta alla scoperta di sé. Bergman racconta la storia usando voiceover, flashback e sogni, tanto meglio per attirarci ulteriormente nella mente di Borg.

Fragole selvatiche(1957)

Il primo sogno ci arriva come un incubo espressionistico, un memento mori in cui Borg assiste a un carro funebre che si schianta e a una bara contenente il suo cadavere ancora vivo: i personaggi di Bergman sono continuamente inseguiti dallo spettro della morte e dall’invadere la vecchiaia. Il sogno è senza parole, che riflette l’amore di Bergman per il cinema muto (e Borg, ovviamente, è interpretato da Victor Sjöström, uno dei grandi registi dell’era del muto e un ex mentore di Bergman).

Borg è accompagnato nel suo viaggio da Marianne (Ingrid Thulin), moglie di suo figlio Evald (Gunner Björnstrand). Lungo la strada prendono un trio di giovani autostoppisti e una coppia sposata di mezza età. Come molti amanti di Bergman, questi ultimi si umiliano a vicenda in accesi scambi al vetriolo, mentre Marianne racconta la discesa di Evald nella misantropia cinica-qui presentata come il risultato finale della freddezza dei genitori. Fortunatamente, i giovani autostoppisti offrono a Borg una nota di grazia, incitando ricordi che gli permettono di confrontarsi con il suo passato e di lavorare verso un senso di riconciliazione, sia con se stesso che con suo figlio. In tutto, il film rimane uno dei lavori più caldi e toccanti di Bergman.

Cosa guardare dopo

Grida e sussurri (1972)

Sebbene il trio di giovani autostoppisti discuta brevemente, quasi comicamente, su Dio, le più grandi questioni di fede rimangono sotto la superficie delle fragole selvatiche. Coloro che cercano un’esplorazione più esplicita di questo famoso tema di Bergman potrebbero provare lo sfarzo medievale del Settimo sigillo (1957) e La primavera vergine (1960): nel primo, un cavaliere tenta di compiere almeno un atto significativo prima di morire, mentre nel secondo un padre mette in atto una sanguinosa vendetta su tre capre che hanno violentato e ucciso sua figlia.

Da lì, un logico passo successivo sarebbe la cosiddetta ‘Trilogia della fede’, comprendente Through a Glass Darkly (1961), Winter Light (1963) e The Silence (1963), in cui Bergman continuò a lottare con il silenzio duraturo di Dio.

Nel frattempo, coloro che cercano un’ulteriore esplorazione delle dinamiche familiari torturate potrebbero continuare con Cries and Whispers (1972), su una donna morente e le sue due sorelle; Autumn Sonata (1978), sulla visita di una madre alla figlia estraniata; o Fanny and Alexander (1982), su due bambini e gli sforzi della madre, degli zii e della nonna per proteggerli dal loro nuovo, malvagio patrigno.

Per chi è più interessato a racconti di amanti umiliati e infedeltà, Sawdust and Tinsel (1953) o Scene da un matrimonio (1973) offrono un buon modo per andare avanti. In alternativa, Smiles of a Summer Night (1955) e A Lesson in Love (1954) offrono più leggeri assume gli stessi temi, e servono come un buon promemoria che, nonostante la sua seria reputazione, Bergman ha fatto una serie di commedie di successo.

Infine, dal lavoro successivo e serio, si dovrebbe anche essere sicuri di non perdere la magistrale Persona (1966), su un’infermiera che si prende cura di un’attrice che si ritira in uno stato di totale silenzio, e Shame (1968), su una coppia sposata che lotta per sopravvivere mentre una guerra selvaggia e senza nome infuria intorno a loro.

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